La risposta è nel secondo itinerario ciclo-gastronomico del progetto Orobikeando: che parte dal grano saraceno e arriva ai formaggi DOP.

Naturalmente, la domanda nel titolo è una scusa per parlare delle eccellenze del nostro territorio… Perché sia il Pizzo Coca che i pizzoccheri si trovano nell’area delle Alpi Orobie, e sono entrambi delle vette. Solo che il primo è una cima vera e propria, la più elevata della catena montuosa (3.052 m), mentre i secondi sono uno dei punti più alti della gastronomia locale, una summa dei prodotti tipici delle valli tra la provincia di Sondrio (la Valtellina) e quella di Bergamo (la Val Seriana). Un’altra differenza è che in cima all’Oi Coca (in bergamasco il “Re delle Orobie”) non si può arrivare in bici, davanti a un bel piatto di pizzoccheri fumanti sì… Come?

Ad esempio partendo da Tirano, la città al confine con la Svizzera in cui si trova la stazione dell’affascinante linea ferroviaria Bernina Express (patrimonio UNESCO), per arrivare al grazioso borgo di Teglio, seguendo un tratto del Sentiero Valtellina, una delle numerose ciclovie orobiche che Orobikeando include nel suo progetto… Ma partiamo dall’inizio, cioè dal grano saraceno.

Diciamo subito che il grano saraceno non è grano. E non è neanche saraceno in senso stretto. Parliamo in effetti dei semi di una poligonacea (Fagopyrum esculentum), che pare abbia raggiunto l’Europa dalle steppe della siberia meridionale. Regioni abitate da popoli abbastanza esotici da meritarsi l’appellativo di “saraceni”, che però di solito indicava i popoli arabi del Mediterraneo… Che confusione! Forse non è un caso se i valligiani delle nostre parti chiamavano il grano saraceno semplicemente “furmentùn”: una specie di frumento, insomma, abbondante, veloce da coltivare, buono da mangiare e tanto basta. Gente pratica, i Valtellinesi.

Naturalmente privo di glutine, il grano saraceno racchiude tutte le caratteristiche nutritive di un cereale e di un legume, pur non essendo né l’uno né l’altro. Coltivato sui campi terrazzati delle montagne orobiche sin dal ‘600, il nostro “frumentone” nel corso degli ultimi decenni è diventato una produzione di nicchia: specie nella varietà autoctona, che oggi viene riscoperta e tutelata. D’altra parte, senza la sua farina scura finirebbero ammainate le bandiere della gastronomia locale: la polenta taragna, gli sciatt e naturalmente i pizzoccheri. La cui ricetta ufficiale è custodita e difesa – a forchetta sguainata – dalla Accademia del Pizzocchero di Teglio: una ricetta che prevede inderogabilmente l’uso del Valtellina Casera.

Il Casera è, insieme al Bitto, uno dei due formaggi DOP della Valtellina. E ci suggerisce un altro itinerario virtuale, che potremmo battezzare “ciclotransumanza”: un percorso da valle a monte sulle orme dei casari, degli allevatori e dei loro animali. Secondo la tradizione, il latte vaccino veniva trasformato nel formaggio Bitto sugli alpeggi d’estate, mentre il Casera era prodotto al ritorno delle mandrie in fondovalle.

Oggi il Valtellina Casera è il tipico formaggio “di latteria”, prodotto solo con latte locale, parzialmente scremato, da due o più mungiture. Stagionato per almeno settanta giorni, il Valtellina Casera giovane ha sapore dolce con sentore di latte; con il prolungarsi della stagionatura, il gusto si arricchisce con note di frutta secca e profumi di fieno. I profumi delle erbe dei pascoli estivi sono invece la caratteristica “montana” del Bitto, accentuata dall’aggiunta di una piccola quantità di latte caprino e dalla stagionatura: che può protrarsi a lungo, addirittura fino a dieci anni. Non a caso pare che il nome di questa specialità orobica venga dal celtico bitu, ovvero “perenne”.

Ma come e dove passare dalla storia alla pratica? Nel sito del Consorzio di Tutela dei Formaggi di Valtellina i cicloturisti gourmand possono trovare una miniera di indirizzi di produttori, alpeggi e stagionatori. Buon viaggio e buon assaggio, in attesa del prossimo itinerario cliclogastrononomico del progetto Orobikeando.